sabato 26 ottobre 2024

ottobre 26, 2024

Una sfida al mercato editoriale. "Yellowface" di Rebecca F. Kuang


C’è un romanzo di cui non si è smesso di parlare per un paio di mesi quest’estate ed è Yellowface di Rebecca F. Kuang. Autrice di grande fama sia negli Stati Uniti che in Italia, Kuang è esplosa con il genere fantasy che ha deciso di abbandonare dopo quattro romanzi proprio con la pubblicazione di Yellowface. Motivo questo, forse, per cui il romanzo ha una serie di elementi che non funzionano del tutto.


Il libro in sé ha una grande potenzialità, soprattutto per l’entusiasmo che è stato costruito per l’uscita, alimentato da una grafica di copertina accattivante: il giallo che domina davanti, in quarta e anche sul taglio delle pagine, due occhi orientali che sembrano ignorare volutamente lo sguardo del lettore e, per finire, la firma dell’autrice protagonista del romanzo “Juniper Song” di nuovo sul taglio giallo del libro. Insomma, la ricetta commerciale perfetta per spingere un romanzo. E non sarebbe nemmeno sbagliato, visto i successi precedenti di Kuang. Il problema, tuttavia, sussiste perché il romanzo funziona per certi versi e per molti altri no. O meglio, non regge la spinta che gli è stata data dal mercato.


La storia che viene raccontata è di taglio attuale e sicuramente conosciuta. È la trama del manoscritto rubato e ripubblicato, rivista in chiave contemporanea. June Hayward, giovane scrittrice con grosse difficoltà a farsi pubblicare, assiste alla morte dell’amica scrittrice di grande successo Athena Liu. Decide di rubarle l’ultimo manoscritto e di editarlo per la pubblicazione. June si firma con lo pseudonimo dal sentore asiatico Juniper Song e pubblica la storia del trauma bellico dei cinesi durante la Prima Guerra Mondiale. È un successo. Il segreto dietro al romanzo, tuttavia, inizia a rendere problematica la vita di June al punto che la giovane dovrà chiedersi fino a che punto è disposta a spingersi pur di tenere la verità per sé.


La scia di romanzi americani che raccontano la parte marcia della publishing industry è ricca, soprattutto negli Stati Uniti. Yellowface ci si inserisce senza troppi problemi, arricchendo il genere con discorsi sulla razza e sul privilegio che risuonano in molti altri romanzi attuali. Un miscuglio a tratti ben riuscito e che sin dall’inizio promette molto bene. Il posto delle minoranze nel mondo dell’editoria viene dissacrato e ribaltato, così che i ruoli razziali nella società siano messi a nudo e mostrati anche nell’ipocrisia che spesso li contorna. Il ruolo che Kuang dà a Twitter nel romanzo esemplifica alla perfezione il processo per cui, purtroppo, i discorsi sull’appropriazione e il privilegio culturale vengono resi vuoti e superficiali. June è personaggio centrale: creato ad hoc per essere detestabile e allo stesso tempo il fulcro di dubbi che, nel profondo, abbiamo tutti, e il suo ruolo mette in dubbio anche le premesse migliori sui discorsi più seri riguardo la razza degli ultimi vent’anni.


Purtroppo, però, la scarsa profondità che emerge dai nuclei tematici del romanzo colpisce anche la sua struttura e costruzione. Yellowface racconta una storia potenzialmente esplosiva, ma il detonatore non viene mai premuto del tutto. I dialoghi tra i personaggi risultano svuotati di profondità, rendendo spesso anche i personaggi stessi delle macchiette all’interno del mondo editoriale. 


La struttura con cui la storia travagliata di June viene raccontata risulta un po’ ripetitiva: June pubblica il romanzo rubato ad Athena e la notizia rischia di trapelare, ma la situazione si risolve per il meglio. Stesso schema per il secondo romanzo, che la porta di nuovo sulla cresta dell’onda e questo non fa che peggiorare la sua ansia e la sua situazione. Il problema non è tanto nella ripetizione, quanto il fatto che questo schema venga gonfiato fino alla fine per poi svuotarsi con una risoluzione che, a mio avviso, risulta un po’ banale. Qual è l’ultimo riscatto possibile di June e la conclusione perfetta per un romanzo che parla di libri? Ovviamente quello di far scrivere alla scrittrice un romanzo molto simile a quello che noi lettori stiamo leggendo.


Infine, una nota sui generi con cui Yellowface gioca in continuazione. Il romanzo ruota sul giallo a carte scoperte, a tratti sull’investigazione ossessiva, sul noir e, purtroppo, anche sul fantasy. Non mancano, infatti, delle incursioni sovrannaturali che rimangono isolate. Il problema non è nemmeno che non vengono spiegate, perché in un romanzo che basa la sua struttura su ciò che non è possibile spiegare funzionerebbero alla perfezione. La criticità si presenta nel momento in cui Yellowface non risponde a queste caratteristiche e quindi, il sovrannaturale macchia solamente la pagina di un dettaglio non pertinente.


Yellowface non è da buttare, anzi. È un’ottima prova per il mercato americano di come, forse, si possa iniziare a smontare la patina di superficialità che copre determinati discorsi sulla razza e sul privilegio. Bisogna riconoscere a Kuang un’audacia non da tutti, soprattutto da parte di una scrittrice donna, giovane e di origini cinesi, capace di guardare con occhi distanti un mondo che fa sempre più difficoltà a confrontarsi con la complessità.

martedì 16 aprile 2024

aprile 16, 2024

Diventare nere in America. “Americanah” di Chimamanda Ngozi Adichie


 

 

Princeton, d'estate, non aveva odore, e anche se a Ifemelu piacevano la verde tranquillità dei tanti alberi, le strade pulite e i palazzi imponenti, i negozi un filo troppo cari e la quieta, persistente aria di meritata grazia, era proprio questo, l’assenza di odore, ad attirarla di più, forse perché le altre città americane che conosceva bene avevano tutte un odore ben distinto. (5)

 

Ifemelu è una giovane nigeriana trapiantata negli Stati Uniti da ormai tredici anni. Scrive su un blog che ha milioni di visitatori giornalmente e ha una borsa di studio a Princeton. Nonostante la vita americana apparentemente appagante, Ifemelu decide di tornare a Lagos in via definitiva, dove ha lasciato sé stessa e Obinze, il ragazzo amato. La storia della protagonista inizia su un binario e si sposta rapidamente in un salone di acconciature che dà il via al suo racconto a ritroso nel tempo. Questa storia continua in Nigeria dove Ifemelu si scontrerà di nuovo con ciò che ha lasciato tredici anni prima, Obinze incluso.


La storia di Americanah sembra avere tutte le premesse per una fantastica storia d’amore. Tuttavia, il romanzo svela sin da subito una sottile trama incastrata tra le parole della storia narrata. Discorsi come l’identità, la razza e l’appartenenza prorompono sulla pagina e aiutano a dipingere un ritratto molto caustico degli Stati Uniti degli anni ’10 del nuovo millennio.


La visione sul paese che emerge è, infatti, quella di occhi esterni. In questo senso, Ifemelu si pone come spettatrice della vita oltreoceano, prima intrisa del sogno americano che condivide con Obinze, poi distante e infine partecipante attiva. La scossa alla vita negli Stati Uniti viene sferrata da un evento traumatico che toglie alla ragazza il contatto diretto con il suo corpo. Da quel momento in poi, questo diventerà uno mezzo per rappresentare l’immagine costruita che la accompagnerà per buona parte della sua esperienza americana. Ifemelu si crea la sua identità americana e la decostruirà passo passo.


Desiderava moltissimo capire tutto dell’America, indossare subito una nuova pelle che sapesse nell’ordine: tifare per una certa squadra al Super Bowl, capire cosa fosse un Twinkie e cosa significasse, in certi sport, la parola “blocco”, prendere le misure in once e piedi quadrati, ordinare un muffin senza pensare che in realtà era un dolce e dire “ho messo a segno un affare” senza sentirsi idiota. (140)

 

L’apice di questa decostruzione avviene quando Ifemelu si rende conto di essere diventata nera. Il discorso sulla razza si intensifica e con esso si delinea ancora meglio quel ritratto caustico degli Stati Uniti, dove le persone nere possono sentire “come se il loro mondo fosse avvolto nella garza” (308). Di conseguenza, in Ifemelu inizia a nascere la consapevolezza di quel vestito che l’identità razziale in America mette indosso ai neri, un aspetto che riguarda il modo in cui le persone non bianche si muovono nella società. L’incomprensione che Ifemelu sente di avere sull’argomento è così forte che la spinge ad aprire un blog nel quale riversare le sue riflessioni, Razzabuglio, o varie osservazioni sui Neri Americani (un tempo noti come negri) da parte di una Nera Non Americana.


Tuttavia, sembra che la stessa identità razziale sia solo un altro vestito che Ifemelu si ritrova a indossare in America e che all’inizio le aveva dato modo di rientrare in quel “sacro circolo americano” (5) nel quale si ritrova a vivere. La nostalgia che percepisce in apertura di romanzo riguarda, forse, proprio l’identità che sente di aver perduto.


Sebbene possa sembrare che la vita americana di Ifemelu sia fatta solo di successi, questi sono stati raggiunti pagando un caro prezzo. Oltre al rientro in Nigeria, l’unico modo apparente per riappropriarsi della sua identità è la scrittura del blog. Questo elemento metaletterario nel romanzo dà la possibilità all’autrice di essere tagliente ed estremamente ironica nei confronti del trattamento del tema della razza negli Stati Uniti. Un argomento che soprattutto i bianchi americani tendono a ignorare del tutto, mettendo tuttavia in risalto le differenze sociali tra neri e bianchi. Ecco qual è il mondo avvolto nella garza: uno tipicamente americano nel quale l’identità razziale governa le dinamiche sociali ma non viene mai nominata.


L’elemento più preponderante del romanzo è forse la metafora dell’identità: i capelli. Ancora una volta il corpo rappresenta al meglio il luogo privilegiato della rappresentazione di sé. Il romanzo inizia con il viaggio che la protagonista intraprende per farsi le treccine prima di tornare a Lagos. I capelli hanno un’importanza cruciale nel romanzo, sono la rappresentazione di una liberazione che avviene solo nel momento in cui ci si riappropria di uno stile naturale. Che siano africane o americane, alle donne nere negli Stati Uniti viene implicitamente richiesto di lisciarsi i capelli, una pratica che le avvicina alle loro concittadine bianche. Rifiutando questa pratica, Ifemelu si libera dalle costrizioni razziste e razzializzanti americane che tentano di rendere più bianche possibili le donne nere. Al contempo, tramite la scrittura, Ifemelu si libera anche di tutte quelle pratiche che rendono i neri, africani o americani, un agglomerato indistinto di persone.


Forse, nella struttura a incastro che domina il romanzo in cui vediamo la storia sia dalla prospettiva di Ifemelu che di Obinze su piani temporali diversi, i protagonisti perdono spessore. Anche il finale potrebbe sembrare privo di profondità agli occhi di chi è abituato al dramma del Romanzo americano. La storia d’amore, tuttavia, forse è un’altra. Come afferma la stessa autrice nell’introduzione all’edizione celebrativa dei dieci anni del romanzo, “what in the end is my story about being Black in America but a lush love story? One that lays bare my faith in love, in love undying.”

mercoledì 7 febbraio 2024

febbraio 07, 2024

L'occasione sprecata della mostra su J. R. R. Tolkien


La storia della letteratura è piena di curiosità inspiegabili. Scrittori che vengono dimenticati perché il loro contributo è ritenuto poco rilevante nella storia culturale di un paese, altri che vengono fraintesi totalmente o interpretati sotto la lente sbagliata. Inspiegabile è anche il caso che riguarda J. R. R. Tolkien, scrittore, filologo, linguista inglese, padre di Il signore degli anelli, Lo Hobbit e una lunga serie di scritti sulla celebre Terra di Mezzo. Quando si tratta di Tolkien i discorsi si fanno un po’ complicati. La sua stessa figura di uomo e scrittore ci mette di fronte a questioni che intersecano la vita con la letteratura, se siamo in grado di cogliere queste sfumature. Tuttavia, quando si parla di Tolkien in Italia il discorso si complica ulteriormente e la letteratura viene messa quasi del tutto da parte. 

Qualche settimana fa, infatti, sono stata alla mostra “Tolkien. Uomo. Professore. Autore” allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (GNAM) di Roma, ovvero l’esempio lampante del complicato rapporto che il nostro paese ha con l’autore e della ormai lunga, lunghissima strumentalizzazione che una parte politica ne ha fatto dagli anni settanta a oggi. Per quel che mi riguarda, la mostra presenta due problematicità molto gravi che dimostrano non solo l’incapacità italiana (e dell’attuale governo) di allestire un’esposizione che tratta di letteratura, ma anche un ripetuto e perseverante sfruttamento ormai ben noto di Tolkien da parte di un ramo della nostra politica.

Partiamo dall’inizio, ignorando per un istante la direzione ideologica che si è voluto far prendere volutamente a questa mostra (costata 250.000 euro di fondi pubblici). La prima difficoltà è l’effetto stordente delle sale espositive, forse dovuto anche all’organizzazione concettuale della Galleria Nazionale. Le opere fisse esposte alla GNAM si adattano perfettamente alla concezione delle sale, le quali non hanno un vero e proprio percorso prestabilito e offrono un’esperienza museale totalmente diversa e contemporanea, per l’appunto, rispetto a un museo tradizionale. Tuttavia, le mostre temporanee non si adattano con la stessa facilità agli spazi espositivi perché spesso richiedono un percorso tracciato e chiaro per comprendere concettualmente ciò che viene esposto. Sfortunatamente, gli spazi espositivi della GNAM non consentono del tutto un’esperienza del genere.

Al di là della difficoltà, mi rendo conto probabilmente soggettiva, nel concepire una mostra temporanea alla Galleria Nazionale, mi appoggio alle parole di Wu Ming per cercare di capire perché la mostra non funziona. Alla mostra manca un allestitore. Questa raccoglie, infatti, una serie di oggetti soprattutto letterari, che sembrano essere messi lì per puro caso. Raccolte di cimeli, libri da collezione, quadri, illustrazioni e giochi (perché sì, c’è una sala dedicata al “fenomeno pop” de Il signore degli anelli) privi di un contesto, di una spiegazione e tantomeno di senso. Le sezioni che costituiscono la mostra (quelle del titolo altisonante “Uomo. Professore. Autore.”) sono piuttosto sbilanciate e non hanno a che vedere molto con le premesse della mostra stessa.

Non si percepisce una cura dedicata all’approfondimento di parti che dovrebbero essere fondamentali
: lo studio filologico di Tolkien sulle lingue  nella sezione “professore”, oltre ad essere stato oggetto di revisioni dopo l’inaugurazione, è quasi assente. La sezione si compone di una carrellata di ritratti degli amici letterari di Tolkien (e anche qui, ce ne sarebbe da dire, ma me lo lascio per dopo), e della scrivania di Tolkien, relegata in una saletta poco illuminata. Qual è il senso di esporre tutte le traduzioni delle opere di Tolkien e le primissime edizioni nella sezione “autore” se poi non viene spiegato nemmeno un po’ la genesi creativa dei suoi scritti più famosi? La mostra, in sintesi, è organizzata male e, come afferma Alessia De Antoniis su Exibart, è priva di una vera strategia espositiva.
Arriviamo, così, al secondo dato problematico di questa mostra. L’incapacità di creare un allestimento che possa chiamarsi tale è dovuta anche alla direzione ideologica che gli organizzatori hanno voluto far prendere alla mostra su Tolkien. Perché è indubbio che il dato su cui ci si è voluti soffermare è quello biografico, un dato che veicola una serie di messaggi cari a una specifica parte politica del nostro paese da più di quarant’anni. Non a caso, la prima sezione presa dal titolo della mostra (quella dedicata all’”Uomo Tolkien”) è la più sviluppata e dettagliata se messa a confronto con le altre due.

Questo dato cozza con le parole del ministro Sangiuliano, che nei confronti della mostra parla del valore “dell’alta letteratura mondiale” (qualsiasi cosa questo significhi…) e del “messaggio metafisico e universale di Tolkien”. La mostra, tuttavia, non mette in risalto niente di tutto ciò, perché di letteratura e di messaggi metafisici non c’è traccia. La mostra si ferma al mero dato biografico e lo rigira a favore del messaggio che si è voluto veicolare, ovvero che Tolkien sia stato fondamentalmente un buon cristiano, un buon padre ma soprattutto un devoto figlio di Dio. Non è un caso, temo, che nella prima sezione si parli quasi esclusivamente del rapporto di Tolkien e della madre con il cattolicesimo, e che nella seconda l’unico dato letterario che poteva essere veicolato, ovvero quello del rapporto con C. S. Lewis sia stato ridotto alla conversione al cattolicesimo di quest’ultimo tramite Tolkien.

Nessuno mette in dubbio la profonda religiosità dell’autore, ma ritengo che esaltare il suo rapporto con la fede cattolica e la fatica di scontrarsi con il mondo brutto e cattivo dell’anglicanesimo sia una decisione che rende la figura di Tolkien monolitica. Come se la sua vita privata fosse legata in modo intrinseco alle sue opere e queste fossero solo il risultato della sua persona. Il rischio di fermarsi al mero dato biografico è che la letteratura sparisce, così come è sparita nella mostra. In più, associare in maniera unidirezionale e netta la biografia di un autore alla sua opera è l’azione più errata che si possa fare da un punto di vista critico-letterario.

Questo è il risultato di una strumentalizzazione sistematica della destra italiana nei confronti di Tolkien
che è, forse, l’autore più usato e abusato a livello ideologico dalla politica. Dagli anni settanta la destra se ne è appropriata elevandolo a baluardo del conservatorismo, della tradizione e della religione cattolica. Senza ombra di dubbio Tolkien non è mai stato un progressista, anzi. Wu Ming e molti altri studiosi dell’autore (perché a loro bisognerebbe chiedere pareri) lo confermano. Tuttavia, associare il conservatorismo di Tolkien all’opera e creare dei parallelismi diretti senza il contraddittorio del testo di cui si parla ha lo stesso valore di studiare l’opera solo attraverso la biografia. In questo senso, l’analisi di Wu Ming è illuminante. I simboli rappresentati da Tolkien sono letti dalla destra in modo a-storico, privati cioè del loro contesto storico e narrativo ed elevati a valori universali e immutabili. Il simbolo, tuttavia, ha la capacità come tale di adattarsi al contesto storico e narrativo nel quale viene inserito e deve essere letto e interpretato di conseguenza. Non solo dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto da quello narrativo.

La direzione politica di questa mostra è chiara ed è resa tale anche dai contributi che le sono stati dati. Non c’è traccia dell’AIST (Associazione Italiana di Studi Tolkeniani), che da anni svolge un lavoro eccellente nella diffusione critica più affidabile possibile dell’opera di Tolkien. Non c’è traccia di studiosi di letteratura che per decenni hanno scritto e parlato di Tolkien (Piero Boitani e Loredana Lipperini sono due esempi, ma la lista è davvero lunga). Gli unici contributi che ci sono, dall’organizzazione, al mancato allestimento passando per gli interventi scritti sul catalogo mostrano chiaramente la formazione di chi ha partecipato. Quasi tutti individui politicamente e culturalmente schierati a destra se non oltre.

La cura dedicata a questa mostra è, in sintesi, alquanto scarsa. Non c’è traccia di ciò che il ministro della cultura ha decantato presentando l’allestimento nei mesi scorsi; non c’è traccia di letteratura né tantomeno viene data un'immagine completa di Tolkien. La mostra “Tolkien. Uomo. Professore. Autore.” è stata la dimostrazione che anche quando si tratta di cultura in Italia non si riesca a creare un allestimento che mostri criticamente il soggetto messo sotto analisi. Un’occasione sprecata di mettere su una mostra dedicata alla letteratura (sì, lo so, sono una sognatrice e un’illusa) e tanti, tantissimi soldi spesi per accontentare fondamentalmente una fetta di pubblico molto precisa. Tolkien e noi lettrici e lettori meritiamo altro.

sabato 20 gennaio 2024

gennaio 20, 2024

Time’s a goon, right? "Il tempo è un bastardo" di Jennifer Egan

Recensione pubblicata sul sito del Centro Studi Americani per il Bright Lights Bookclub.

Esistono universi narrativi inaspettati nei quali i personaggi appaiono nei modi più bizzarri con le loro ossessioni e paure. Mondi in cui la narrazione viene affidata a voci esterne, non del tutto identificate e che hanno, tuttavia, un potere enorme sulla storia che viene raccontata. Questi universi vengono maneggiati da autori di un certo calibro, che non hanno paura a sperimentare con la letteratura. Jennifer Egan è tra questi e Il tempo è un bastardo ne è la prova.

Strutturato come un romanzo frammentario, uno short story cycle in cui storie apparentemente indipendenti creano un flusso di continuità percepibile tra le righe, Il tempo è un bastardo si inserisce in una linea di storie tipiche del nuovo millennio. Personaggi alla deriva, narrazioni che richiamano il postmoderno e, allo stesso tempo, se ne fanno gioco, disturbi che prendono il sopravvento e storie bizzarre incorniciate dagli Stati Uniti più crudeli di sempre.

I personaggi che abitano le storie di Egan sono individui alla deriva, disturbati da ossessioni che non permettono loro di vivere il presente perché troppo concentrati sul proprio passato o su un futuro la cui realizzazione fa paura e paralizza. Sasha e Bennie sono personaggi centrali nella maggior parte delle storie e sembrano essere il perno su cui gira il resto dei capitoli non dedicati direttamente a loro. Anche se non presenti in prima persona, i legami e le relazioni che gli altri personaggi intessono con loro nel passato, nel presente o nel futuro è così forte da tenere tutto legato da un filo invisibile molto sottile. Sono questi stessi personaggi che, attraverso narrazioni inaspettate, prendono la parola e danno voce al loro sbando.

Stephanie lo sapeva. Le sembrava quasi di sentire lo scroscio della speranza che fluiva nel fratello. «E quindi la risposta qual è?» gli chiese.

«Certo, sta per finire tutto,» disse Jules «ma non ancora.»


Si tratta, però, di un’intera generazione priva di prospettive e incapace di guardare al di là dei propri mostri, incapace anche solo di ammettere le proprie debolezze. Le reazioni sono svariate e diversificate. Bennie si rifugia nel lavoro, guarda coloro che una volta erano stati i propri amici (come nel caso di Scotty) con una distanza non solo sociale ma anche emotiva. Sasha scappa da casa e si rifugia in una Napoli pittoresca, dove pensa che nemmeno la sua famiglia la troverà. Il caso vuole che sia Ted Hollander a trovarla, lo zio e l’unico membro del suo nucleo familiare che non la cerca davvero. Tuttavia, le sue ossessioni non la lasceranno mai in pace davvero, perché è proprio con lei e la sua cleptomania che si apre il romanzo.

Egan sembra non lasciare scampo a nessuno. Uno spiraglio compare solo con le nuove generazioni che animano frammentariamente questo romanzo. Capaci, forse, di adattarsi al mondo con nuovi strumenti, Ally, Lincoln, Charlene e Lulu sembrano essere gli unici personaggi ad emergere vittoriosi. Tuttavia, non è la vittoria che i loro genitori o noi lettori ci aspetteremmo: Ally riesce a raccontarsi davvero attraverso una sezione narrata sotto forma di presentazione Power Point; Lincoln è l’unico personaggio a dare voce e importanza ai silenzi, creando così un legame invisibile a livello strutturale tra le sezioni dei romanzi; Charlene parla, si esprime e racconta una verità scomoda e tragica che nessuno sembra voler ammettere se non in punto di morte; Lulu, infine, sembra essere l’unica capace ad ascoltare davvero.

Molti dei personaggi rincorrono ossessivamente i loro sogni, non si rendono conto del tempo che passa sotto i loro occhi perché troppo concentrati su quelli che l’autrice definisce veri e propri “goons”: bastardi, scagnozzi criminali come il tempo infimo e silenzioso che deruba i personaggi della loro giovinezza e innocenza, lasciandoli in una spirale di infinita insoddisfazione.

Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent’anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell’intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?

Il romanzo si intesse così sulle fila del tempo che scorre, passa e non risparmia nessuno. La musica, in questo senso, è il legante e la rappresentazione di come le cose possano cambiare e rovinarsi senza che nessuno se ne accorga. È il ritratto di un’America che non ce la fa, anche quando il romanzo si chiude su una visione di riconciliazione apocalittica in cui New York è condannata dal cambiamento climatico. La musica diventa l’unità di misura per la perdita di innocenza e dell’illusione giovanile dei protagonisti, dall’industria musicale di Bennie alla ripresa improvvisa e bizzarra nel finale che chiude circolarmente il romanzo.

In questo modo si crea un senso di unità non solo tra i capitoli del romanzo ma nell’intero universo narrativo. Tuttavia, è una continuità che viene costantemente messa in discussione. Le sezioni sono narrate in modo diverso, ci sono piani esistenziali inaspettati (come la sezione di Rob e la sua tragica fine), forme diverse come il capitolo del Power Point che sfidano la stessa definizione di narrazione. L’ironia che pervade le storie raccontate in Il tempo è un bastardo rende paradossalmente tutto meno definitivo. I racconti di instabilità rimangono tali: non crollano, non decollano, non mutano più di tanto. Una fine dolce amara.

Cerca gli articoli qui

Dove puoi trovarmi