sabato 20 gennaio 2024

Time’s a goon, right? "Il tempo è un bastardo" di Jennifer Egan

Recensione pubblicata sul sito del Centro Studi Americani per il Bright Lights Bookclub.

Esistono universi narrativi inaspettati nei quali i personaggi appaiono nei modi più bizzarri con le loro ossessioni e paure. Mondi in cui la narrazione viene affidata a voci esterne, non del tutto identificate e che hanno, tuttavia, un potere enorme sulla storia che viene raccontata. Questi universi vengono maneggiati da autori di un certo calibro, che non hanno paura a sperimentare con la letteratura. Jennifer Egan è tra questi e Il tempo è un bastardo ne è la prova.

Strutturato come un romanzo frammentario, uno short story cycle in cui storie apparentemente indipendenti creano un flusso di continuità percepibile tra le righe, Il tempo è un bastardo si inserisce in una linea di storie tipiche del nuovo millennio. Personaggi alla deriva, narrazioni che richiamano il postmoderno e, allo stesso tempo, se ne fanno gioco, disturbi che prendono il sopravvento e storie bizzarre incorniciate dagli Stati Uniti più crudeli di sempre.

I personaggi che abitano le storie di Egan sono individui alla deriva, disturbati da ossessioni che non permettono loro di vivere il presente perché troppo concentrati sul proprio passato o su un futuro la cui realizzazione fa paura e paralizza. Sasha e Bennie sono personaggi centrali nella maggior parte delle storie e sembrano essere il perno su cui gira il resto dei capitoli non dedicati direttamente a loro. Anche se non presenti in prima persona, i legami e le relazioni che gli altri personaggi intessono con loro nel passato, nel presente o nel futuro è così forte da tenere tutto legato da un filo invisibile molto sottile. Sono questi stessi personaggi che, attraverso narrazioni inaspettate, prendono la parola e danno voce al loro sbando.

Stephanie lo sapeva. Le sembrava quasi di sentire lo scroscio della speranza che fluiva nel fratello. «E quindi la risposta qual è?» gli chiese.

«Certo, sta per finire tutto,» disse Jules «ma non ancora.»


Si tratta, però, di un’intera generazione priva di prospettive e incapace di guardare al di là dei propri mostri, incapace anche solo di ammettere le proprie debolezze. Le reazioni sono svariate e diversificate. Bennie si rifugia nel lavoro, guarda coloro che una volta erano stati i propri amici (come nel caso di Scotty) con una distanza non solo sociale ma anche emotiva. Sasha scappa da casa e si rifugia in una Napoli pittoresca, dove pensa che nemmeno la sua famiglia la troverà. Il caso vuole che sia Ted Hollander a trovarla, lo zio e l’unico membro del suo nucleo familiare che non la cerca davvero. Tuttavia, le sue ossessioni non la lasceranno mai in pace davvero, perché è proprio con lei e la sua cleptomania che si apre il romanzo.

Egan sembra non lasciare scampo a nessuno. Uno spiraglio compare solo con le nuove generazioni che animano frammentariamente questo romanzo. Capaci, forse, di adattarsi al mondo con nuovi strumenti, Ally, Lincoln, Charlene e Lulu sembrano essere gli unici personaggi ad emergere vittoriosi. Tuttavia, non è la vittoria che i loro genitori o noi lettori ci aspetteremmo: Ally riesce a raccontarsi davvero attraverso una sezione narrata sotto forma di presentazione Power Point; Lincoln è l’unico personaggio a dare voce e importanza ai silenzi, creando così un legame invisibile a livello strutturale tra le sezioni dei romanzi; Charlene parla, si esprime e racconta una verità scomoda e tragica che nessuno sembra voler ammettere se non in punto di morte; Lulu, infine, sembra essere l’unica capace ad ascoltare davvero.

Molti dei personaggi rincorrono ossessivamente i loro sogni, non si rendono conto del tempo che passa sotto i loro occhi perché troppo concentrati su quelli che l’autrice definisce veri e propri “goons”: bastardi, scagnozzi criminali come il tempo infimo e silenzioso che deruba i personaggi della loro giovinezza e innocenza, lasciandoli in una spirale di infinita insoddisfazione.

Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent’anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell’intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?

Il romanzo si intesse così sulle fila del tempo che scorre, passa e non risparmia nessuno. La musica, in questo senso, è il legante e la rappresentazione di come le cose possano cambiare e rovinarsi senza che nessuno se ne accorga. È il ritratto di un’America che non ce la fa, anche quando il romanzo si chiude su una visione di riconciliazione apocalittica in cui New York è condannata dal cambiamento climatico. La musica diventa l’unità di misura per la perdita di innocenza e dell’illusione giovanile dei protagonisti, dall’industria musicale di Bennie alla ripresa improvvisa e bizzarra nel finale che chiude circolarmente il romanzo.

In questo modo si crea un senso di unità non solo tra i capitoli del romanzo ma nell’intero universo narrativo. Tuttavia, è una continuità che viene costantemente messa in discussione. Le sezioni sono narrate in modo diverso, ci sono piani esistenziali inaspettati (come la sezione di Rob e la sua tragica fine), forme diverse come il capitolo del Power Point che sfidano la stessa definizione di narrazione. L’ironia che pervade le storie raccontate in Il tempo è un bastardo rende paradossalmente tutto meno definitivo. I racconti di instabilità rimangono tali: non crollano, non decollano, non mutano più di tanto. Una fine dolce amara.

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