Una varietà di suoni umani: "Follie di Brooklyn" di Paul Auster
Per approfondire Brooklyn e il romanzo, ti consiglio di ascoltare la prima puntata del podcast Storie letterarie dedicata a Auster e il suo romanzo.
Autore: Paul Auster
Titolo: Follie di Brooklyn
Titolo originale: Brooklyn Follies
Edizione: Einaudi, 2014
Traduzione: Massimo Bocchiola
Nathan Glass sta cercando un posto dove morire. Un posto tranquillo, silenzioso. Curioso che scelga proprio Brooklyn sotto consiglio di un suo amico, un quartiere pieno di vita e cultura che si insinua silenziosamente in gran parte delle pagine di questo libro. Follie di Brooklyn sembra iniziare come il miglior romanzo di Samuel Beckett (al punto da sembrare un omaggio alle prime pagine di Malone muore, Malone Dies) e se non fosse per l’apertura che lo sfondo urbano di New York suggerisce al lettore, potrebbe proprio sembrare così. Se da un lato i romanzi di Beckett – soprattutto la famosa Trilogia – lasciano un senso di incompletezza e chiusura, Follie di Brooklyn fa tutto il contrario, pur aprendosi su un’apparente nota di una fine preannunciata.
Le spiegai che probabilmente entro l’anno sarei morto, e non me ne fregava un cazzo di fare progetti.
Nathan Glass si presenta come l’uomo più cinico e detestabile del quartiere, “un po’ cattivo a volte” (4) e abbastanza disilluso riguardo l’amore e gli affetti. Tuttavia, l’uomo quasi sessantenne e con un tumore, decide che è giunto il momento di fare qualcosa, “trovare un modo per ricominciare a vivere; ma anche se non fossi vissuto, ero costretto a fare qualche cosa di più che mettermi a sedere e aspettare la fine” (5). Follie di Brooklyn illude nuovamente il lettore, che pensa di star leggendo la storia di un uomo in attesa della morte, alle prese con un bizzarro progetto chiamato Il libro della follia umana in cui riversare “il racconto di tutti gli svarioni e i capitomboli, i pasticci e i pastrocchi, le topiche e le goffaggini in cui ero caduta nella mia lunga e movimentata carriera di uomo” (7).
Glass è il rocambolesco narratore di una storia più grande di lui che lo include solo marginalmente. Attraverso la ormai nota tendenza di Auster a far rivolgere il proprio narratore direttamente al lettore, Nathan sembra indirizzare la sua attenzione verso i personaggi che orbitano intorno alla sua vita. Sebbene questa sembri ormai sull’orlo della fine, paradossalmente saranno proprio il nipote e altre bizzarre figure che lo salveranno da questa caduta libera verso il baratro fisico, emotivo e psicologico.
Il progetto di Nathan di scrivere un libro sulla follia umana si trasforma ben presto nella storia che egli stesso, come narratore, racconta a noi lettori. La follia diventa quella bizzarra quotidianità e ordinarietà che è presente solo nei romanzi di Paul Auster. Non è un caso che insieme a Glass, altri strani personaggi dalle abitudini fuori dall’ordinario abitino le pagine di questo libro, esseri umani alla deriva che ritraggono un quadro più che realistico: un vecchio collezionista recidivo che ingenuamente si fa tentare da pratiche illegali che possano renderlo ricco e famoso; un ex dottorando di letteratura alla deriva finito a lavorare per il collezionista; una donna all’apparenza irraggiungibile e che poi si rivela essere la più ordinaria – e anche mediocre – figura di tutta la storia; una bambina che fa un voto di silenzio per amore della madre, capace di risvegliare due uomini ormai intorpiditi dalla vita.
Le vite di questi strani ma ordinari personaggi si intrecciano perfettamente al paesaggio urbano di una delle città preferite da Auster–New York. Come unico libro che l’autore ha deliberatamente scritto per essere una commedia (Auster e Siegumfeldt 229), la città non diventa una trappola per l’essere umano come succede, per esempio, in Trilogia di New York. La ragione si trova nella scelta, più che familiare per Auster, di concentrare il romanzo nella zona più artistica di New York, Brooklyn, che assume tratti per lo più positivi. Il titolo del romanzo diventa così più comprensibile, non solo per via dell’ovvio riferimento al borough newyorkese, ma grazie all’apertura e, allo stesso tempo, ambiguità del significato delle “follie”. Non sono dell’idea che queste si riferiscano in prima battuta al libro della follia umana di Glass. Per quello che lo riguarda, il manoscritto serve come trampolino di lancio per agganciare le vite “di ordinaria follia” alla quotidiana divergenza della vita del narratore e dei suoi compagni di viaggio. Al contrario, le follie del titolo sembrano proprio trovarsi in questo stato di ordinarietà che Auster decide di rappresentare nel colorato, storico e multiculturale distretto di Brooklyn.
Dopo tutti quegli anni nei sobborghi trovo che la città mi sia consona, e mi sono già affezionato al mio quartiere, con il suo mutevole calderone di bianchi e mori e neri, il suo coro a più strati di accenti esotici, i suoi bambini e i suoi alberi, le sue famiglie piccolo-borghesi che faticano, le coppie lesbiche, i negozi di alimentari coreani, il santone indiano barbuto in tunica bianca che si inchina ogni volta che ci incontriamo per la strada, i nani e gli storpi, i vecchi pensionati che arrancano a passettini sul marciapiede, le campane delle chiese e i diecimila cani, la popolazione sotterranea di rovistarifiuti senzacasa solitari che spingono i carrelli del supermercato lungo i viali e cercano bottiglie nella spazzatura. (157)
Non è un caso che tutti i personaggi ritrovino una parte di sé stessi in questo luogo abitato storicamente da persone eclettiche, artistiche, un po’ perse, forse, nel caos di una metropoli come New York. Brooklyn diventa in questo modo la follia ordinaria per eccellenza, uno spazio immaginato da Auster come un rifugio dalla perdita di sé, un luogo dove ritrovarsi e essere altro, uno spazio di opportunità per vivere identità -anche sessuali- diverse (Schaub 390).
La nipote di Glass ritrova sé stessa dentro la multiculturalità di Brooklyn, tanto quanto la figlia di lei, che si inserisce in un clima che, pur non avendo mai conosciuto prima, le sembra familiare, accogliente e caldo.
Da completa estranea alla vita della metropoli che era, si adattò in fretta al nuovo ambiente e si sentì quasi subito a casa nel quartiere. [...] Sentiva parlare in spagnolo e in coreano, in russo e in cinese, in arabo e in greco, in giapponese, in tedesco e in francese, ma invece di sentirsi intimidita o perplessa esultava di questa varietà di suoni umani. (197)
La leggerezza con cui Auster riesce a tessere le fila di questa storia rende il romanzo una “comedy” in cui la sofferenza umana è legata in modo naturale alla vita di tutti i giorni. È Auster stesso a chiarire che questa nostalgica prospettiva nei confronti dell’ordinario non è casuale, poiché era lui stesso ad avere bisogno di guardare alla vita da questa angolazione (Auster e Siegumfeldt 229). Forse è proprio questa sua necessità ad aver reso la rappresentazione di Brooklyn il più conforme possibile alle aspettative dei lettori e delle lettrici. Il ritratto urbano della metropoli, per quanto variegato e differenziato, ne esce un po’ appiattito dall’immaginazione del famoso “American Dream” (Schaub 397), che vede una New York e una Brooklyn sempre inclusive e multiculturali fino alla nostalgia di qualcosa che, forse, non è mai davvero esistito in questi termini.
Il romanzo non termina in modo prevedibile né coerente con la leggerezza con cui la storia viene narrata e forse è proprio il freno che viene tirato improvvisamente nelle ultime pagine a rendere il libro ancora più godibile. Visto dall’angolazione del finale, Follie di Brooklyn assume un ulteriore significato, ancora diverso ma allo stesso tempo coerente con gli altri possibili.
Bibliografia.
Auster, Paul. Follie di Brooklyn. Traduzione di Massimo Bocchiola, Torino, Einaudi, 2014. Auster, Paul e I. B. Siegumfeldt. A Life in Words. New York, Seven Stories Press, 2017.
Schaub, Christoph. “Brooklyn Cosmopolitanisms: Situated Imaginations of Metropolitan Cultures in Paul Auster’s ‘The Brooklyn Follies’ and Mos Def’s ‘Black on Both Sides’”. Amerikastudien/American Studies, vol. 56, no. 3, 2011, pp. 381-401.
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